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Dossena a ISP: “Giocherei con Klopp, Malesani un innovatore. Napoli, ingenuità fatale nel 2011”

Andrea Dossena, Napoli (Getty Images)

L'ex esterno difensivo di Hellas Verona, Treviso, Udinese e Palermo si racconta ai nostri microfoni

Redazione ITASportPress

"Di Federico Mariani

"Sono trascorsi 105 giorni dal primo caso di Coronavirus a Codogno. L’episodio diede il via alla formazione della prima zona rossa italiana, formata da dieci comuni del Basso Lodigiano. Un territorio che Andrea Dossena conosce bene: vicino a Casalpusterlengo c’è l’azienda di famiglia e nel Fanfulla, storica squadra di Lodi, ha fatto il suo ingresso nel mondo del pallone. Un percorso fatto a piccoli passi, arrivando a calcare i campi di Serie A con Hellas Verona, Treviso, Udinese, Napoli e Palermo fino a correre sul prato di Anfield, casa del Liverpool. Ci è riuscito grazie alla grande generosità sul terreno di gioco. Qualità che gli consentiva di arare senza sosta la fascia sinistra. La sua infinita passione per il calcio non si è interrotta quando ha appeso gli scarpini al chiodo. Ancora oggi trasmette i suoi ideali tattici ai ragazzi del Crema Calcio. Dossena si è raccontato in esclusiva ai nostri microfoni.

"Andrea, come ha passato questo periodo?

"“Bene, anche se ancora adesso mi sento un po’ frustrato perché non c’è la possibilità di giocare a calcio o di vederlo in televisione. Quando è scoppiata l’emergenza a Codogno ed erano stati isolati i primi dieci comuni, ero a Milano, dove vivo normalmente. Poi, nel momento in cui la zona rossa si è estesa all’intera Lombardia, ho deciso di trasferirmi tra Casalpusterlengo e Pieve Fissiraga, dove i miei genitori hanno un’azienda agricola. Qui ho vissuto la mia quarantena. Per fortuna siamo stati bene, nessuno di noi si è ammalato. È stato comunque un periodo davvero duro. Abbiamo toccato con mano la situazione”.

"Il calcio si prepara a ripartire: qual è la sua opinione?

"“Secondo me è assolutamente giusto ripartire con adeguate sicurezze e con un protocollo attento e preciso. Il governo e le istituzioni dovevano aiutare la Serie C, ma non con l’adesione volontaria a playoff e playout. Credo sia meglio concludere il campionato e lasciare che sia il campo a dare i suoi giudizi. Con l’attuale provvedimento è logico immaginare che ci saranno tanti reclami. Inoltre, in termini di sponsor, la ricaduta sarà pesante. Si potrebbe ripensare a un modello simile a quello presente in Bundesliga, in cui i top club contribuiscono al finanziamento. Ma sarà anche importante ricominciare perché, appena ripartirà il campionato, nessuno si ricorderà del lockdown”.

"Dunque lei è convinto che il calcio possa essere una sorta di cura per alleviare le sofferenze delle persone in questo momento difficile?

"“Il mondo del pallone va cinque volte più veloce di quello normale. È vero che per il tifoso il calcio è uno sfogo, ma teniamo presente che per certe persone significa avere un lavoro. Ci sono segretari e impiegati che lavorano all’interno di un club. Se ci sono i presupposti, è giusto ripartire, come avviene con altre aziende. Pensiamo anche alle società di Serie D, in cui non si sa se verranno pagati i giocatori.. Non è come in serie C: se non si allenano non prendono nulla”.

"Lei parla con cognizione di causa, dato che è un allenatore.

"“Alleno a Crema. Siamo in una zona di classifica particolare. Valutando i nostri punti saremmo a rischio retrocessione, ma solamente perché abbiamo alcuni incontri da recuperare. Teoricamente, a parità di partite saremmo salvi. Perlomeno ci dovrebbe essere lo stesso numero di incontri per giudicare una situazione. Su 36 squadre retrocesse, in 30 hanno fatto ricorso. Questo per ribadire che dev’esserci il criterio della parità di incontri, anche per poter valutare gli scontri diretti. Noi restiamo fiduciosi e abbiamo voglia di partire. Si dice che la data giusta possa essere il 20 settembre. Non ci resta che aspettare”

"Come mai ha scelto di praticare questa professione? Era una vocazione che sentiva naturale?

"“Fino a 30 anni pensavo che avrei giocato finché ne avrei avuto l’opportunità. Mi dicevo: ‘Gioco finché posso’. Mi piaceva troppo il calcio. Vivevo di adrenalina. Non ero come altri giocatori che sentivano il peso dei ritiri e della preparazione. Mi piaceva allenarmi e preparare i match. Poi mi sono chiesto: ‘Cos’è quella cosa che mi può far vivere le stesse emozioni?’. Mi sono risposto che non poteva non essere l’allenatore. Per questo motivo mi è sempre piaciuto allenare. Ma anche in precedenza ho cercato continuamente di imparare da tutti i miei maestri qualcosa. Mi sono sempre reso conto di quando avevo davanti un allenatore che mi stava dando qualcosa di importante. Altri ruoli come il direttore o il procuratore non mi si addicono. Ho sempre associato l’allenatore al mio futuro perché mi piace il brivido della competizione e la ricerca del risultato: in fondo se la domenica non vinci sei sempre sotto pressione”.

"Ha parlato di allenatori che le hanno trasmesso qualcosa: c’è un maestro che considera particolarmente importante per la sua formazione?

"“Tutti insegnano qualcosa, anche chi dà qualcosa di sbagliato dal tuo punto di vista. Ho avuto allenatori ottimi tatticamente, ma meno attenti ad altri aspetti. Alberto Malesani era un allenatore innovativo. Voleva che il portiere facesse partire l’azione. Un concetto che ora è diventato basilare, ma assolutamente impensabile venti anni fa. Ho imparato anche da Gian Piero Gasperini, nonostante l’abbia avuto per pochi mesi. La sua intensità negli allenamenti era impressionante. E poi ho studiato Maurizio Sarri e Marco Giampaolo. Inoltre ho avuto Walter Mazzarri. Tecnici diversi tra loro, che in comune danno una loro impronta e da cui si impara tanto. Secondo me questo è importante: dare un'identità alla squadra. Faccio un esempio. Diego Simeone ha stravinto con l'Atletico Madrid, pur non avendo conquistato la Champions. I suoi uomini riescono a stare in campo in maniera ben precisa e portano risultati. Già soltanto l'accesso alla finale è un trionfo, tenendo conto del budget dei Colchoneros rispetto a top club come il Real”.

"Tra i campionati destinati a ripartire c’è anche la Premier League, un campionato a lei caro, che potrebbe terminare con la vittoria del “suo” Liverpool.

"“Trovarsi ad Anfield è fantastico di per sé, anche se non vinci è indimenticabile. Dispiace se i Reds non vinceranno col pubblico. Sono trent’anni che aspettano questo momento, un’eternità per una squadra come il Liverpool. In queste ultime stagioni qualsiasi tifoso avrebbe barattato la Champions con una Premier. L’hanno stravinta con numeri fantastici. Peccato non poter festeggiare con i tifosi”.

"Ha fatto parte di un Liverpool che disputò ottime stagioni. Ci sono dei punti in comune con la formazione di Jurgen Klopp?

"“Eravamo un’ottima squadra e ovviamente anche noi conoscevamo lo spirito del Liverpool che è quello di non arrendersi mai. Inoltre gli avversari soffrono lo stadio. C’è qualcosa di psicologico. C’è sempre lo stadio che condiziona il giocatore. Ognuno di noi calciatori ha il campo in cui fatica particolarmente. Mi piace ripetere che Liverpool è la Napoli inglese e viceversa. Anche al San Paolo succede lo stesso per il calore del tifo. Se andiamo a prendere i numeri, difficilmente una squadra usciva vincente contro il Napoli in cui giocavo nelle partite cruciali. Si tratta di squadre diverse, ma dotate dello stesso spirito. De resto, quando arrivi a Liverpool, oltre a ricevere la maglia, c’è un pezzo di storia”.

"Lei è stato protagonista in una squadra che andò vicino al titolo nel 2009. Cosa mancò per vincere?

"“Il Manchester United per un lungo periodo si era ritrovato con alcune partite in meno. Loro erano avanti in FA Cup e dovevano disputare il Mondiale per club a dicembre: di conseguenza si sono ritrovati ad avere tre gare in meno. Il nostro gioco era molto speculativo. Benitez è sempre stato molto attento alla fase difensiva. A dicembre, con le piccole, abbiamo ottenuto tre pareggi che ci sono costati carissimo. In quel momento lo United era fermo per disputare il Mondiale. Quella frenata, col senno di poi, è stata fatale per le nostre speranze di vittoria. Quando sei davanti devi vincere sempre. È stato un peccato, già allora i tifosi volevano tanto quel campionato”.

"Com’era dividere lo spogliatoio con mostri sacri come Fernando Torres e Steven Gerrard?

"“Lo spogliatoio inglese è meno vissuto rispetto a noi. Lì c’è più freddezza. Comunque di Gerrard ricordo il suo carisma. Non alzava mai la voce, ma bastava un ‘Come on’ per caricarci. Con Pepe Reina avevo un bel rapporto anche perché è un altro ‘latino’ come me. Con lui ho giocato diverse partite a carte. Era molto scaramantico”.

"Prima di Anfield ci sono state le esperienze nel Triveneto, partite con l’Hellas. Cosa le ha lasciato Verona?

"“Verona mi ha lasciato tantissimo, con aspetti che vanno oltre il calcio. Sono arrivato lì a 14 anni e sono partito da ventitreenne. Ho vissuto in quella città nel periodo in cui ho perso mia madre. La passione del calcio è incredibile. Ricordo la rivalità col Chievo in quel momento. La retrocessione è stata un brutto momento, ma ha permesso a me e ad altri ragazzi delle giovanili di giocare in prima squadra. Quell’opportunità che ci è stata data è risultata preziosissima. Purtroppo, nel 2005, per un punto abbiamo mancato la Serie A”.

"A Treviso ha fatto parte di una squadra storica per la città al debutto assoluto in Serie A.

""Credo che il club si sia trovato in qualcosa di più grande. C’erano problemi con lo stadio. Non eravamo pronti per quel tipo di calcio. Il salto è stato troppo grande”.

"A Udine, invece, ha trovato un gruppo capace di conquistare l’Europa.

"“Il master più importante per un calciatore desideroso di fare esperienza e crescere è Udine. L’Udinese è quel tipo di società che permette di lavorare in tutti i modi in maniera ottimale. La città lascia crescere senza pressioni. Devo dire che nel Triveneto ho sempre avuto ottime esperienze. I bianconeri riuscivano a sfornare parecchi giocatori interessanti. Nel 2007/08 abbiamo girato il girone d’andata al quinto posto, a ridosso della terza piazza. Avevamo undici titolari forti, ma una panchina penalizzante per puntare in alto. Nel girone di ritorno Felipe e Mesto hanno riportato infortuni gravi e siamo arrivati quinti a pochi punti dalla Champions, che è l’obiettivo massimo per l’Udinese. Gran parte del merito di quei risultati era di Pasquale Marino. Era un allenatore che giocava un calcio offensivo. Molti segreti li ho imparati da lui”.

"Dopo Liverpool, l’esperienza al Napoli. Nel 2010/11 avete accarezzato il sogno scudetto. Da parte vostra, c’è mai stata la convinzione di poter vincere il titolo?

"“Più forte di così non potevamo andare. Per la prima volta dai tempi di Maradona il Napoli è tornato in Champions. Abbiamo vinto la Coppa Italia nella stagione successiva che era l’unico trofeo realmente raggiungibile. Nel 2011 siamo riusciti a contendere il campionato al Milan fino a 6 giornate dalla fine. L’anno dopo c’era la Juve di Conte e non c’è stata storia. Comunque quel Napoli ha permesso alla società di comprarsi Higuain con la vendita di Cavani. È stato un continuo crescendo. Basti pensare che il monte ingaggi di allora era di 60 milioni. Tornando alla domanda iniziale, sicuramente ad aprile ognuno di noi pensava al sogno tricolore prima di andare a dormire (sorride ndr.). Vincere uno scudetto a Napoli è impagabile. Saresti nella storia. Ma noi eravamo come una Golf che va alla velocità della Mercedes. Sapevamo che al primo passo falso avremmo perso contatto con il Milan. Abbiamo ribaltato 4-3 la Lazio e nelle due domeniche successive abbiamo perso contro Udinese e Palermo. Lì abbiamo capito che era finita. Inoltre abbiamo commesso un’ingenuità nello scontro diretto contro i rossoneri. Avevamo giocato col Villarreal in Europa League il giovedì. Siamo tornati di notte e il sabato siamo ripartiti per Milano. Parlando con Mazzarri abbiamo concordato che il nostro è stato un peccato di inesperienza. Saremmo dovuti tornare a Milano subito, senza far tappa a Napoli. Psicologicamente avevamo subito anche l’eliminazione in coppa perché avevamo giocato bene. Ma in generale eravamo davvero stanchi”.

"E quello spogliatoio com’era? Dall’esterno si direbbe più caldo di quello del Liverpool…

"“Dico solo che eravamo metà italiani e metà sudamericani. Si è creato un grande gruppo allegro e spensierato. Basti pensare che Marek (Hamsik ndr.) è sposato con la sorella di Gargano. Certo quando vinci era sempre più facile stare bene”.

"Poi il Palermo dove ha conosciuto anche un giovane come Dybala.

"“Vedevo le sue qualità tecniche. Si notava che era forte, ma forse non così come appare oggi. Diciamo che la maturazione è avvenuta l’anno dopo. Essendo andato in una squadra forte, ha completato la sua crescita. Del resto, la Juve difficilmente sbaglia acquisti”.

"C’è una squadra in cui le piacerebbe giocare per filosofia tattica?

"“Tornerei nel Napoli di Sarri, che secondo me è la perfezione fatta squadra. Poi c’è Klopp che pratica un gioco che mi piace. Quando l'ho visto, mi sono chiesto se non sarebbe potuto arrivare prima a Liverpool, quando c'ero anch'io (ride ndr.). È un allenatore che finora non ha mai sbagliato un anno. Qualcosa vorrà pur dire…”.

"Se ne avesse la possibilità, quale partita rigiocherebbe per rivivere alcune emozioni speciali o per cambiarne il risultato finale?

"“Una gara che mi è rimasta indigesta è l’ottavo di finale col Chelsea nella Champions League 2011/12. Psicologicamente non ero presente. Sono stato chiamato in causa e non ero al 100% come avrei voluto”.

"Ultima domanda: ha progetti futuri estranei al mondo del calcio?

"“In questo momento no. Anzi, il lockdown mi ha fatto appassionare ancora di più al calcio. Non perdo l’occasione di vedere molte partite dei massimi campionati o altri match che mi serviranno in futuro...”.